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Una Tradizione non ancora completamente riscoperta

del Rev. Fausto taiten Guareschi


Questo articolo è stato pubblicato su di una rivista di Arti Marziali intorno al 1978.Lo pubblichiamo per la grande attualità dell’argomento trattato e per il prezioso intervento del Maestro Fausto Taiten Guareschi, monaco Zen, insegnante di arti marziali, maestro del Tempio Zen Soto Shobozan Fudenji


Parlare di tradizione non implica il conoscerla necessariamente e parlare dello spirito che anima l'arte marziale non significa praticarlo. A dispetto dell'ovvietà di questa considerazione anche i maestri giapponesi ed il popolo giapponese, imbevuto naturalmente di tradizione , non ne conoscono, nel la maggior parte dei casi, la reale portata e profondità.

Tradizionalmente alla porta dei Dojo veniva scritto: « Luogo dove si uccidono gli uomini » o «Luogo degli alberi secchi ». A quali e a quante considerazioni bizzarre può essere portato lo spirito superficiale di qualche sprovveduto che si attiene all'apparenza? Ma qual è in effetti la differenza, se differenza deve esserci, che porta

l’ uomo moderno a preferire molte volte un Dojo ad una palestra qualsiasi, una arte marziale ad una semplice e divertente attività sportiva? Cosa troverà poi il nostro uomo realmente dai così detti Maestri di arti marziali di tanto differente da un buon istruttore di sci o di tennis? Nella maggior parte dei casi proprio nessuna differenza!

Ma andiamo per ordine Che cosa si deve intendere per arte marziale -- budo--per Dojo e per spirito della tradizione ?

Do sta per Via, metodo, sentiero, verità e, guarda caso corrisponde esattamente alI'ottuplice sentiero dell'insegnamento Buddista. Si

tratta di un metodo, di una « Via » che è allo stesso tempo pratica e realizzazione senza distinzione quindi tra mezzo e finalità da raggiungere. La distinzione è sottile ma essenziale. Retta visione, retto pensiero, retto linguaggio, azione retta, retti mezzi di esistenza, retto sforzo, retta attenzione e retta concentrazione, formano l'ottuplice sentiero (Do) che consente di affrancarsi della schiavitù della morte e del ciclo della trasmigrazione. I primi due aspetti definiscono la saggezza (Prajna), i tre intermedi la moralità e l'etica (Sila) ed i tre ultimi la concentrazione Dyana e Samadhi, tre elementi essenziali nello studio e nella pratica di un Do, una Via.

Bu viene creato dall'unione di due ideogrammi che significano rispettivamente: Arrestare, fermare, controllare e lancia (in senso esteso tutte le armi della guerra e il combattimento). L'ideogramma cinese Wu della parola Kung Fu Wu Shu ha esattamente lo stesso significato. Quindi Bu Do significa Via, metodo per arrestare e controllare la lancia, il combattimento. Il Budo rappresenta una evoluzione dell'antico Bu Jutsu in cui tutto si riduceva o quasi alla tecnica « Waza » all'arte Jutsu. L'ultimo rappresenta l'oggettivo il secondo il soggettivo. In effetti la separazione è più apparente che reale: I'uno significa per me, per gli altri, I'altro per gli altri e poi, per me. Non per nulla Jigoro Kano mette l'accento su questo duplice aspetto nel principio Ji Ta Kyo Ei: se stesso, Ji; gli altri, Ta insieme, Kyo per prosperare, Ei. Sono evidenti le matrici Buddiste che animano la trasformazione dell'antico Bujutsu in Budo soprattutto quando la creazione di un metodo passa per le mani di una personalità elevata come quella di Kano nel creare Kodokan judo

Veniamo ora alla parola Dojo. Dojo significa semplicemente ma profondamente: luogo, Jo dove si pratica la Via, Do.

E'anche il luogo alla cui entrata si trova scritto «Luogo dove si uccidono gli uomini » e in cui i maestri esortano gli allievi: « Praticate come se un fuoco bruciasse sopra le vostre teste ». (Daichi Zenji),

« Per comprendere è necessario entrare almeno una volta nella propria bara » (Taisen Deshimaru Roshi).

Presagi di morte, atmosfera cupa, grave, rattristata dalla paura della morte? Esattamente il contrario: i vecchi maestri della tradizione conoscevano e conoscono bene la dinamica dei contrari, un aspetto che genera il suo contrario e lo utilizzano ad arte. « Entrate con il piede sinistro ed uscite con il destro », « non entrate mai dal centro della porta» . « Chiudete la porta con attenzione, dolcemente, senza sbatterla nè fare il minimo rumore », «non tenete mai atteggiamenti sconvenienti di fronte ad un maestro o un allievo anziano»; questi «bizzarri » ammonimenti riflettono esattamente l'atmosfera che regna nel Dojo, I'educazione che vi si applica. Il Dojo non è un convegno sportivo, un luogo di piacere, un luogo di divertimento: è il luogo in cui l'individuo, sotto la guida di un maestro, studia e pratica la più elevata dimensione di se stesso come individuo (ji) e come membro della comunità (Ta). Lo spirito di rispetto--rei no kokoro--è insieme il mezzo ed il fine per arrivare all'essenza. Rispetto significa saper osservare, comprendere, utilizzare per il proprio e l'altrui benessere.

Il grande Ueshiba lo ha ripetuto più volte ed è semplicemente questo a rappresentare la natura di Buddha. Ia natura dell'uomo che si risveglia dal sonno dell'ignoranza. In questo non c'è nessuna differenza tra il monaco zen che siede a meditare nel Dojo e la dura pratica dell'autentico uomo del budo. Molti tra i lettori, ricorderanno una famosa storia concernente Miyamoto Musashi, celebre ed imbattuto combattente. Un giovane allievo si presentò dal celebre Maestro per essere iniziato all'arte del Kendo. Per tutta risposta fu inviato con una scure a spaccar legna. La pazienza e la costanza dell'allievo furono premiati dopo sei mesi, quando gli fu concesso di entrare nel Dojo ma esclusivamente per un singolare compito: avrebbe dovuto camminare senza mai sbagliare sulla stretta striscia cucita che unisce i vari tatami tra loro. L'allievo si applicò diligentemente per altri sei mesi, mentre vicino a lui gli altri allievi si battevano con le shinai,poi si rivolse al maestro: "Maestro, mi sono conformato ai vostri insegnamenti, ma sono venuto da voi per apprendere l'arte del kendo e non ho ricevuto, sino ad ora, nessun insegnamento specifico, sono deciso a partire". "Aspetta ancora un giorno"replicò il maestro, "Domani ti mostrerò il segreto del Kendo". L'indomani i due si arrampicarono sulle montagne sino ad un punto in cui era richiesto, per passare sull'altro versante, attraversare un tronco gettato a mò di ponte fra i bordi di un precipizio. La corrente fragorosa di un ruscello scorreva parecchi metri più sotto.

Il maestro invitò l'allievo a passare sullo stretto ed improvvisato ponte, certamente più grande della sottile linea su cui aveva l'abitudine di camminare nel Dojo. Il giovane allievo preso dall'incertezza indugiava... Nel frattempo arrivò dall'altra parte un cieco che, tastando con il suo bastone, attraversò senza incertezze. Il giovane comprese prontamente ed attraversò a sua volta il ponte. " Vedi -- disse il maestro--ora sei libero di imparare la tecnica (Gi) da uno dei tanti maestri che esistono nel Giappone io ti ho costruito un corpo forte (Tai) e dato un giusto spirito (Shin)". Anche oggi non è molto differente: se da una parte i buoni tecnici possono essere ormai trovati un po' ovunque, i maestri, gli educatori veri e propri, scarseggiano alquanto. Per di più mancano degli allievi che abbiano una sufficiente « educazione, amore per l'arte che intendono studiare e fiducia profonda nell'insegnante ». Rimandiamo a questo proposito alla brillante descrizione che Itsuo Tsuda fa degli uchi deshi (allievi interni alla casa) nel libro « Ecole de respiration ».

L'autore da un quadro netto e preciso di ciò che si intende per allievo, il suo comportamento nei confronti del maestro e del valore dell'educazione tradizionale. Qualcuno potrebbe pensare che nel mondo moderno si possano ottenere risultati con metodi sofisticati apparentemente più evoluti e ragionevoli, che facciano leva sulle caratteristiche dell'uomo occidentale dell'epoca moderna. Nello sport, nella competizione, nel preparare l'uomo della catena di montaggio ciò potrà essere senz'altro valido. Ma quando

si parla di autentico educare i mezzi utilizzati devono essere diversi. L'autentica educazione

fa perno sul « ripetere », sull'« abitudine del corpo », sul pensare attraverso il corpo, sulla coscienza Hishiryo descritta nello zen.

Molti hanno preteso il comprendere la filosofia zen la sua pratica, leggendo qualche libro dei vari Watts ,Humphrey, D.T. Suzuki... Niente di più inesatto, superficiale e fuorviante. Lo zen è semplice ,troppo semplice per essere utilizzato da chi si propone scopi secondari, è esperienza soggettiva e a nulla serve studiarlo oggettivamente. Non è limitato alla mentalità orientale, al loro contesto culturale, come scrivono certi intellettuali presuntuosi e disinformati. Lo zen ed i suoi criteri educativi sono una specie di trappola che ha in comune con l'arte marziale il fatto che più si cerca di utilizzarli consciamente per un qualsivoglia scopo più perdono automaticamente il loro significato e la loro specifica « efficienza ». Questa è la filosofia e la pratica del senza-scopo (Mushotoku) che mal si accorda con lo spirito ristretto dell'uomo moderno ma è, allo stesso tempo, la legge indefinibile, senza nome, senza-sospetto (Muso) dell'Ordine Cosmico alla quale l'uomo dovrà necessariamente ritornare per risolvere la crisi in cui si trova. E' importante che chi si avvicina all'arte marziale non sbagli direzione: un piccolo errore iniziale porterà irrimediabilmente lontani dall'autentico obiettivo. Chi prima, chi poi, tutti i grandi combattenti (Ksatriya, guerriero, « colui che si oppone al Caos » della mente e del corpo) hanno compreso la stretta relazione fra Budo, BuJutsu e l'autentica dimensione religiosa, l'insegnamento originale. Non bisogna confondere le cosidette sane attività sportive, che invero sfociano molte volte nel medio criterio professionistico, con lo studio e la pratica dell'arte marziale. La sola ricerca dell'efficienza (sempre relativa, fra l'altro) senza saggezza (Prajna) fa scivolare molte volte l'uomo in una dimensione non differente dagli animali selvaggi. Sono dei Maestri, degli educatori forti, profondi ed equilibrati « che abbiano ricevuto a loro volta una vera educazione da un maestro tradizionale. » Tra maestro ed allievo è indispensabile si crei un'armonia perfetta al di là delle parole e delI'aspetto tecnico dell'insegnamento (Kimochi).

La vera educazione, il vero insegnamento non può affermarsi negli istituti, nelle scuole di stato, nelle accademie di arti marziali nè tantomeno seguendo i nuovi e moderni criteri di preparazione scientifica e standardizzata. Beninteso, in ogni attività sportiva praticata ad un livello elevato, I'uomo trova modo di migliorarsi, di sondare la sua psiche, le sue emozioni, i limiti del proprio corpo, ma tutto ciò rimane ancora troppo superficiale, circoscritto, niente affatto utile (la pratica lo ha dimostrato) all'autentico progredire della civiltà.

Manca il senso profondo della complessa interdipendenza tra individuo e collettività. In definitiva il « comportamento » come la chiave di volta dell'educazione e quindi della civiltà.

Un comportamento del corpo forte e delicato, allo stesso tempo, influenza profondamente il sistema nervoso ed ogni cellula del corpo. L'effetto, in più, non è limitato a se stessi ma si estende agli altri, alle altre esistenze, al mondo fenomenico in generale. Si crea la premessa affinché sgorghi naturalmente un'Intuizione ed una Saggezza fresche e senza limiti. E' la ragione fondamentale perché nel Dojo, le maniere, i modi originali (kata) e le forme di rispetto debbano venir compresi e praticati

scrupolosamente. Il « Rei » non è solamente buona educazione: è rispetto per il proprio avversario, i compagni di pratica, il maestro ed ogni esistenza del Cosmo. Non si tratta di misticismo, né di metafisica, ma la chiara consapevolezza dell'azione precisa ed irriducibile del Karma.


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